Francesco Cito Premio Mediterraneum 2017 per la Fotografia

2017 francesco cito
Francesco Cito

Francesco Cito, è nato a Napoli il 5 maggio 1949.
Il suo primo reportage, “La mattanza” viene pubblicato in copertina dal The Sunday Times mag.
Nel 1980 è il primo fotoreporter a raggiungere clandestinamente l’Afghanistan occupato con l’invasione dell’Armata Rossa, e al seguito di vari gruppi di guerriglieri che combattevano i sovietici, percorre 1200 km a piedi. Inviato sul fronte Libanese, nel 1983, segue il conflitto in atto fra le fazioni palestinesi. È l’unico foto-giornalista a documentare la caduta di Beddawi, ultima roccaforte di Arafat in Libano. Nel 1984 si dedica alle condizioni del popolo palestinese all’interno dei territori occupati della West Bank (Cisgiordania) e la Striscia di Gaza. Seguirà tutte le fasi della prima e seconda “Intifada”.
Nel 1994 realizza un reportage sui coloni israeliani oltranzisti. Nell’aprile 2002, è tra i pochi ad entrare nel campo profughi di Jenin, sotto coprifuoco durante l’assedio israeliano, alle città palestinesi.
Nel 1989 è inviato in Afghanistan e ancora clandestinamente a seguito dei “Mujahiddin” per raccontare la ritirata sovietica. Nel 1990, è in Arabia Saudita nella prima “Gulf War” con il primo contingente di Marines americani dopo l’invasione irachena del Kuwait. Seguirà tutto il processo dell’operazione “Desert Storm” e la liberazione del Kuwait. Nel 2000 realizza un reportage sul “Codice Kanun”, l’antica legge della vendetta di origini medievali nella società albanese. Si aggiudica il primo premio al World Press Photo 1996, con un lavoro sul Palio di Siena.
Nel 2007 è invitato dal Governatorato di Sakhalin (Russia), l’isola ex colonia penale raccontata da Checov, per documentare la vita e le attività produttive, a seguito della scoperta di ingenti giacimenti petroliferi, lavoro raccolto in un foto libro editato in Russia. Realizza per “Van Cleef & Arpels” 50 immagini che documentano il lavoro degli abili artigiani, raccolte in un volume stampato in nove lingue.

Il Muro d’Israele

“Muro e insediamenti israeliani, un affronto ai diritti palestinesi” è il rapporto di Amnesty International pubblicato in occasione dell’arrivo del presidente Barack Obama in Israele. Nel rapporto del 21 marzo si parla in particolare della questione del villaggio di Jayyous, a nord della Cisgiordania, dove dal 2009 i contadini palestinesi attendono la restituzione di 2,4 km quadrati di terra, sottratti all’epoca della costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e Cisgiordania.
La storia del muro risale al 14 aprile del 2002, gli anni della seconda intifada (2000-2005), quando il primo ministro israeliano Ariel Sharon annunciò la costruzione di una barriera di separazione fra Israele e la Cisgiordania.
I piani di costruzione risalivano però al ‘95 quando l’allora primo ministro laburista Yitzhak Rabin aveva presentato un progetto per bloccare l’infiltrazione di terroristi nel territorio israeliano.
Lo scrittore israeliano Abraham Ben Yehoshua fu uno dei primi sostenitori della costruzione per una separazione fisica fra israeliani e palestinesi. Secondo Ben Yehoshua c’era bisogno di un confine che proteggesse gli israeliani dal terrorismo arabo e che desse ai palestinesi il pieno diritto di sovranità
su un territorio ben delimitato.
Il progetto prevede la realizzazione di una barriera difensiva lunga 708 km che corra lungo la linea di armistizio del 1949 fra Giordania e Israele, il confine internazionalmente riconosciuto e noto come “linea verde” ma al suo completamento, solo il 15% rispetterà tali confini.
In diversi tratti la barriera diverge dalla linea per includere nel territorio di Israele insediamenti
israeliani come Gerusalemme est, Ariel, Gush Etzion, Emmanuel, Karnei Shomron, Giv’at Ze’ev, Oranit e Ma’ale Adumim. La zona compresa fra la linea verde e la barriera è stata definita seam zone, ovvero zona cuscinetto. I palestinesi residenti in questa zona con un’età superiore ai 16 anni hanno bisogno di ottenere un attestato di residenza permanente per continuare a vivere nelle loro case.
Ai residenti della Cisgiordania per entrare nella zona compresa fra lo storico confine e la fortificazione difensiva occorre, invece, un attestato speciale da visitatori. Ottenere il permesso è complicato, infatti secondo uno studio condotto dall’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs e dalla United Nations Relief and Works Agency meno del 20% di quelli che coltivavano le loro terre in quella che oggi è la zona cuscinetto hanno ottenuto il permesso.

Oltre ad esibire una fedina penale pulita, un agricoltore palestinese residente ad est del muro ha l’obbligo di presentare alle autorità israeliane un certificato che attesti la proprietà di un determinato appezzamento che si trova dall’altra parte del muro. Si tratta però di un requisito difficile da dimostrare dal momento che Israele ha dichiarato le terre non censite nei registri e quelle non coltivate consecutivamente per 3 anni terre di Stato.
L’ingresso nella zona cuscinetto è convogliato attraverso specifici ingressi: lungo tutto il percorso se ne contano 66, di cui 27 però sono chiusi e dei restanti, circa la metà, restano aperti solo per sei settimane all’anno per la raccolta delle olive, e per poche ore al giorno.
Il percorso della barriera lede la libertà di movimento dei palestinesi e con l’istituzione delle bypass road (le strade riservate ai soli coloni israeliani) i palestinesi sono costretti a tragitti più lunghi.
Quando la separazione verrà completata 30 località, chiuse all’interno della seam zone, si troveranno separate dagli ospedali, 22 dalle scuole, 8 dalle fonti d’acqua e 3 dalla rete elettrica. Dopo la formale annessione nel 1980 di Gerusalemme ad Israele, attorno alla città santa è stata progettata un’altra barriera di oltre 140 km che includerà insediamenti e isolerà villaggi palestinesi.

Circa 64 km quadrati di terre appartenenti a Bethlehem verranno annesse all’interno del muro.
La barriera è composta per circa 60 km da una parete di cemento alta fra gli 8 e 9 metri, una strada per pattugliamenti, una di sabbia liscia per rintracciare le orme di infiltrati, un fossato profondo, filo spinato e recinto elettronico che avvisa un tentativo di attraversamento.
La Corte internazionale di giustizia ha stabilito che il muro viola il diritto internazionale e va smantellato perché penetrando all’interno di un territorio destinato alla costituzione di uno stato palestinese, implica un’annessione di fatto, in violazione del principio di inammissibilità dell’acquisizione dei territori con la forza sancito nella risoluzione 242 per la prima volta dal Consiglio di sicurezza.
La barriera sarebbe stata una misura temporanea, aveva asserito Israele, ma a quasi undici anni dall’avvio dei lavori, per completare il muro, mancano solo 200 km.
Francesco Cito


L’occhio testimone del fotogiornalista ha visto e documentato, per noi, ancora un altro “muro”.
La mala pianta regolarmente rispunta, alimentata dalle ipocrite necessità della storia e concimata dai sentimenti più ostili che si possono immaginare.
Dopo le tristi esperienze di Berlino, di Dublino, di Cipro, abbiamo eretto, infatti, ancora un’altra separazione, da qualcuno definita “muro della vergogna”, da altri “linea di separazione” per scongiurare tentativi di paventati atti terroristici.
Invero, una volta che il muro l’hai alzato, giocoforza, le persone non si vedranno più, i loro quotidiani rumori si confonderanno, i sospetti aumenteranno e così, inevitabilmente, lasceranno spazio all’abbandono delle relazioni,degli scambi, degli incontri.
C’è, in questa testimonianza del nostro Cito, il senso condiviso dell’ingiustizia e dell’affronto fatto alla comunità umana, lo stupore per un gesto che, seppur motivato da drammatiche emergenze, è stato realizzato con l’indifferenza del geometra che accerta e appone i nuovi confini di un mero terreno.
Ma stavolta l’operazione non è stata condotta in contraddittorio con l’altra parte, anzi, è stata portata avanti unilateralmente; e l’idea che la costruzione potesse rivelarsi effimera, temporanea, va ormai scomparendo di fronte a quel cemento che, giorno dopo giorno, si scopre sempre più armato.
Pippo Pappalardo


Francesco Cito, è nato a Napoli il 5 maggio 1949. Interrotti gli studi si trasferisce a Londra nel 1972 per dedicarsi alla fotografia. L’ inizio in campo fotografico 1975, avviene con l’ assunzione da parte di un settimanale di musica pop-rock (Radio Guide mag.). Gira l’ Inghilterra, fotografando concerti e personaggi della musica leggera. In seguito, divenuto fotografo free-lance, inizia a collaborare con The Sunday Times mag., che gli dedica la prima copertina per il reportage “La Mattanza”. Successivamente collabora anche con L’Observer mag.

Nel 1980, è uno dei primi fotoreporter a raggiungere clandestinamente l’Afghanistan occupato con l’invasione dell’Armata Rossa, e al seguito di vari gruppi di guerriglieri che combattevano i sovietici, percorre 1200 KM a piedi. Sue le foto dei primi soldati della Stella Rossa caduti in imboscate.

Nel 1982 – 83, realizza a Napoli un reportage sulla camorra, pubblicato dalle maggiori testate giornalistiche, nazionali ed estere. Sempre a Napoli nel 1978 per The Sunday Times mag. aveva realizzato, un reportage sul contrabbando di sigarette dallo interno dell’organizzazione contrabbandiera. Nel 1983 è inviato sul fronte Libanese da Epoca, e segue il conflitto in atto fra le fazioni palestinesi; i pro siriani del leader Abu Mussa, e Yasser Arafat e i suoi sostenitori. E’ l’unico foto-giornalista a documentare la caduta di Beddawi (campo profughi), ultima roccaforte di Arafat in Libano. Seguirà le vari fasi della guerra civile libanese, fino al 1989.

Nel 1984 si dedica alle condizioni del popolo palestinese all’interno dei territori occupati della West Bank (Cisgiordania) e la Striscia di Gaza. Seguirà tutte le fasi della prima “Intifada” 1987 – 1993 e la seconda 2000 – 2005. Resta ferito tre volte durante gli scontri. Nel 1994 realizza per il tedesco Stern mag. un reportage sui coloni israeliani oltranzisti. Nell’aprile 2002, è tra i pochi ad entrare nel campo profughi di Jenin, sotto coprifuoco durante l’assedio israeliano,alle città palestinesi.
Nel 1989 è inviato in Afghanistan dal Venerdì di Repubblica e ancora clandestinamente a seguito dei “Mujahiddin” per raccontare la ritirata sovietica. Tornerà in quelle aree di nuovo nel 1998 inviato dal settimanale Panorama, con l’intento di incontrare Osama Bin Laden. Intento non andato a buon fine a causa l’inizio dei bombardamenti americani.

Nel 1990, è in Arabia Saudita nella prima “Gulf War” con il primo contingente di Marines americani dopo l’invasione irachena del Kuwait. Seguirà tutto il processo dell’operazione “Desert Storm” e la liberazione del Kuwait 27 – 28 febbraio 1991. Nei suoi viaggi attraverso il Medio Oriente, in più occasioni ha focalizzato il suo interesse a raccontare i vari aspetti dell’Islam dal Pakistan al Marocco, Negli anni 90 segue le varie fasi dei conflitti balcanici.

Nel 2000 realizza un reportage sul ” Codice Kanun “, l’antica legge della vendetta di origini medievali nella società albanese
In Italia si occupa spesso di casi di mafia, ma anche di eventi come il Palio di Siena che gli varrà il primo premio al World Press Photo 1996 ed altri rilevanti aspetti della società contemporanea. Dal 1997 l’ obiettivo è anche puntato sulla Sardegna fuori dagli itinerari turistici, tra il sociale e le tradizioni, lavoro già in parte racchiuso in in foto-libro.

Nel 2007 è invitato dal Governatorato di Sakhalin (Russia), l’isola ex colonia penale raccontata da Checov, per un lavoro fotografico, sul territorio, illustrando la vita e le attività produttive, a seguito della scoperta di ingenti giacimenti petroliferi. Lavoro divenuto una mostra e un foto libro editato in Russia.
Nel 2012 la prestigiosa casa di gioiellieri parigini “Van Cleef & Arpels” gli commissiona la realizzazione di un lavoro fotografico, in cui descrivere l’operosità attraverso le mani dei loro artigiani, nel confezionare i gioielli più esclusivi del mondo. 50 immagini raccolte in un volume stampato in nove lingue.

1995 il World Press Photo gli conferisce il terzo premio Day in the Life per il “Neapolitan Wedding story “
1996 il World Press Photo gli conferisce il primo premio per il Palio di Siena.
1997 l’Istituto Abruzzese per la storia d’Italia contemporanea, gli conferisce il premio “Città di Atri” per l’impegno del suo lavoro sulla Palestina.
2001 il Leica Oskar Barnak Award lo segnala con una Menzione d’Onore per il reportage “Sardegna”
2004 riceve il premio Città di Trieste per il Reportage. I° edizione
2005 riceve il premio: La fibula d’oro, a Castelnuovo Garfagnana (LU)
2005 riceve il premio ” Werner Bischof ” Il flauto d’argento ad Avellino
2006 l’associazioni FIAF lo insigna del titolo “Maestro della fotografia italiana
2006 vince il premio Bariphotocamera
2007 riceve il premio Benevento
2009 vince il premio San Pietroburgo (Russia)
2009 insignito del premio Antonio Russo per il reportage di guerra, (Pescara)
2013 vince il primo premio Canon – Mondadori

Ha collaborato e pubblicato sulle maggiori riviste nazionali e straniere:
Bunte / Epoca / l’Europeo / Figaro mag / Frankfurter Allgemeine mag / Illustrazione Italiana / Il Venerdì di Repubblica / The Indipendent / Io Donna / Il Sole 24 Ore mag / L’Express / Life / The Observer mag / Panorama / Paris Match / Sette-Corriere della Sera / Smithsonian mag / Stern / Sunday Times / Traveler / Zeit mag


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